MIO FIGLIO GAY: GENITORI E OMOSESSUALITA’ DEI FIGLI

Negli ultimi anni si parla frequentemente di omosessualità, di orientamento sessuale e di identità di genere. Sempre più spesso mi contattano genitori che hanno scoperto l’omosessualità del/la figlio/a e che non sanno come gestire la novità. In particolar modo negli ultimi tempi sembriamo assistere ad un aumento dell’omosessualità femminile, che ha aperto ad infinite considerazioni circa la figura del “padre assente”. Nel seguente articolo non è mia intenzione approfondire tali teorie, quanto piuttosto offrire una riflessione che possa accompagnare i genitori che si trovano a vivere questa nuova esperienza.

L’omosessualità di un figlio e la reazione dei genitori è argomento delicato da sempre: già nel 1935 Freud rispose alla lettera di una madre che gli aveva chiesto aiuto per il figlio gay con le seguenti parole:

Non c’è nulla di cui vergognarsi. Deduco dalla tua lettera che tuo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non utilizzi questo termine quando dai informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo eviti?” continua Freud. “L’omosessualità non è di certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante, non può essere classificata come una malattia, riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni sono stati omosessuali, molti dei quali sono stati grandi uomini1.

Freud non considerava l’omosessualità come una patologia, bensì affermava da tempo che tutti nascessero bisessuali e più tardi si orientassero verso l’etero o l’omosessualità.

Negli ultimi anni l’età del coming out (il momento in cui la persona afferma pubblicamente la propria omosessualità) è frequentemente anticipata alla fase dell’adolescenza. Tale fase è già di per sé caratterizzata da una grande confusione circa la propria identità come persona, nonché circa le proprie emozioni. Spesso per questo motivo molti ragazzi non vengono “creduti” dai genitori circa il proprio orientamento sessuale. Tale disconferma sottende spesso il bisogno di negare l’evento da parte dei genitori stessi.

Ogni persona giunge alla consapevolezza del proprio orientamento sessuale quando è pronto, tale anticipazione a cui stiamo assistendo attualmente è semplicemente frutto del fatto che oggi i ragazzi sono maggiormente informati rispetto al passato, possono spesso contare su una rete sociale anche virtuale, che permette loro di sentire un senso di appartenenza necessario per uscire allo scoperto nella vita reale.

In passato le persone omosessuali hanno negato a lungo, alcuni anche a se stessi, il proprio orientamento sessuale per paura del rifiuto della società e dell’isolamento.

Le famiglie, una volta informate dell’omosessualità del proprio figlio/a, possono avere diverse reazioni, non di rado entrano in crisi come spesso accade di fronte ad ogni cambiamento che coinvolge il sistema-famiglia.

Durante il mio lavoro con i genitori è emerso spesso che tale scoperta in realtà è qualcosa che essi hanno sempre saputo, ma affrontare l’argomento direttamente con i figli risulta troppo complesso. Ogni famiglia vive l’evento in modo diverso e necessita del suo tempo di elaborazione.

Nelle famiglie particolarmente sensibili agli stereotipi e ai luoghi comuni sull’omosessualità, ho riscontrato frequentemente forti vissuti di rabbia nei confronti del figlio a causa del dolore che stanno provando, oppure si colpevolizzano del suo orientamento sessuale e tentano in vari modi di “curarlo”, magari proponendogli la conoscenza di potenziali partner di sesso opposto, o cure psicologiche.

Queste reazioni sottendono entrambe il senso di impotenza che sperimentano i genitori ed il loro tentativo, attraverso un capro espiatorio a cui attribuire “la causa” dell’evento, di recuperare il controllo della situazione. Ricordiamo che spesso l’impotenza spaventa e le persone tendono a “ripotenziarsi” attraverso emozioni forti come la rabbia.

Invito sempre i genitori a rintracciare sotto quella rabbia le emozioni più profonde che stanno provando ad evitare, cioè la paura e la sofferenza: spesso tali emozioni accomunano i genitori ai figli, permettendo alla famiglia di risintonizzarsi e ritrovarsi insieme in un momento in cui sembrano non riconoscersi più. I genitori sentono di non conoscere più il figlio ma anch’esso sente di non conoscere i suoi genitori, dai quali magari non si sarebbe aspettato una reazione negativa. I genitori possono aver paura di accettare un figlio diverso dalle loro aspettative, mentre i figli possono aver paura di non essere da loro accettati.

Il rifiuto dei genitori sottende anche la paura della vita che attende i loro figli: nonostante si faccia un gran parlare di accettazione, di educazione al rispetto di ogni identità di genere, ciò a cui assistiamo continuamente sono atti di rifiuto, aggressività, oserei dire spesso di razzismo. A tal proposito molti genitori mi riportano frequentemente di aver paura che i loro figli possano essere oggetto di bullismo e discriminazione.

Inoltre, nonostante oggi ci si stia aprendo alla genitorialità delle coppie gay, tale possibilità è oggetto di numerose controversie, pertanto molti genitori temono che l’omosessualità dei figli precluda loro la possibilità di diventare a loro volta genitori e di avere dunque una propria famiglia. Ciò sembra essere ancora più intenso quando si tratta di una figlia. 

Vorrei sottolineare al riguardo l’interessante fenomeno per il quale sembra che solo nell’ultimo decennio si parli di omosessualità femminile, come se questo fosse un fenomeno scollegato al concetto di omosessualità in generale. Oggi le ragazze lesbiche si ritrovano quasi a dover fronteggiare ex novo le battaglie che i ragazzi omosessuali hanno affrontato negli anni 2000, con la stessa negazione da parte della società, la stessa rabbia da parte dei pare e una lotta continua per far valere il loro diritto di amare, anche all’interno della propria famiglia (impossibile dimenticare il recentissimo caso di Malika Chalhy, cacciata di casa dai genitori dopo aver fatto coming out!).  Temo che questo indichi quanto la nostra società non fosse ancora pronta a considerare che anche una donna possa innamorarsi di un’altra donna, a prescindere dal suo senso di maternità e dal suo ruolo biologico.

A proposito di ruoli, quello dei genitori è un ruolo molto delicato che richiede costantemente di crescere insieme ai propri figli: bisogna imparare ad essere genitori di un neonato, poi bisogna imparare ad essere genitori di un bambino di 6 anni, poi di un adolescente e così via.

Accettare l’omosessualità di un figlio o di una figlia è ancora una sfida irrisolta e difficile da affrontare per molti genitori ma questi ultimi possono imparare ad essere genitori di un figlio gay.

Il primo passo dovrebbe essere ad esempio quello di documentarsi bene sull’argomento, evitando comportamenti impulsivi, dettati dai pregiudizi e dalla scarsa informazione. L‘elaborazione di un evento inizia dalla conoscenza dello stesso!

Consiglio sempre ai miei pazienti di dare spazio alle proprie emozioni: in particolare, come già evidenziato, sotto la rabbia e la colpa iniziali spesso si celano sofferenza e paura. Sono queste le emozioni a cui bisogna dare voce per poterle superare.

Ascoltandosi ci si apre alla possibilità di ascoltare anche i propri figli: anche se è una situazione difficile da affrontare lo scambio è necessario per raggiungere un benessere familiare.

Inoltre è importante cercare di mostrare rispetto per i sentimenti che provano i figli.

I genitori a volte  tendono a minimizzare l’evento, affermando che gli adolescenti sono troppo piccoli per avere già certezze così grandi circa se stessi; tale affermazione purtroppo aumenta la confusione provata dai figli e rischia di portare questi ultimi ad agire (a volte anche con gesti forti) pur di affermare la propria condizione. Nel mio lavoro “accompagno” dunque i genitori “nell’accompagnare” i figli nella scoperta di se stessi, anche se questo può significare a volte dover girare in tondo e tornare mille volte sulle stesse posizioni per osservare le cose in modo diverso.

Ricordiamoci sempre che la rigidità, di fronte al cambiamento, non permette mai di riconoscere il proprio contributo nelle cose, bensì fa vivere tale cambiamento come qualcosa di inevitabilmente subito.

1La lettera è attualmente esposta a Londra nell’ambito della mostra alla Wellcome Collection.

MIO FIGLIO GAY: GENITORI E OMOSESSUALITA’ DEI FIGLI

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE NEGLI ADULTI

In seguito all’ultimo anno di pandemia ho notato un aumento di richieste di psicoterapia da parte di adulti, nei quali ho riscontrato disturbi del comportamento alimentare, più o meno consapevoli.
Tale evidenza mi ha portato a riflettere su quanto sia delicato il rapporto con il cibo in tutte le fasce di età e su quanto alcuni sintomi riescano a celarsi per anni dietro compensazioni funzionali nella vita adulta, al punto da mascherarsi come “normalità” pur comportando disagi e sofferenza alla persona.
I DCA sono disturbi pericolosi in ogni fascia d’età ma in età adulta richiedono particolare attenzione per permettere alla persona di affrontarli senza temere di destabilizzarsi troppo rispetto alle responsabilità della vita attuale.
Di seguito una riflessione personale sui disturbi del comportamento alimentare negli adulti riscontrate nella mia professione di psicoterapeuta.
Durante la pandemia in corso si è registrato un aumento del 30% dei casi di Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA), riportato sul Messaggero Umbria dal Centro disturbi del comportamento alimentare di Todi, uno dei Centri più famosi in Italia.
L’Istituto Superiori di Sanità ipotizza che il fenomeno sia riconducibile a 4 motivazioni principali:

1. I condizionamenti forzati dell’epoca COVID-19 aumentano il rischio di ricaduta o peggioramento delle condizioni di DCA: Le condizioni di limitazione sociale, la paura di ammalarsi in seguito all’infezione da Coronavirus e il senso di mancato controllo della situazione possono portare ad un aggravamento dei disturbi alimentari. Chi tende a restringere potrebbe farlo molto di più per compensare anche la mancanza di una adeguata attività fisica e la paura di aumentare troppo di peso. Chi invece tende ad abbuffarsi, potrebbe all’opposto scivolare verso un aumento degli episodi di alimentazione incontrollata per compensare le emozioni negative e lo stress del lockdown. Da non sottovalutare poi la forzata e prolungata convivenza con i familiari che in molti casi ha generato o acutizzato difficoltà e tensioni interpersonali;
2. Chi soffre di Dca è più a rischio di infezione da COVID-19: Le condizione di Dca mal si conciliano con una piena risposta difensiva dell’organismo al possibile attacco di un virus: malnutrizione, riduzione delle riserve di grasso corporeo, malfunzionamento intestinale possono rendere vulnerabile il corpo all’azione delle infezioni. Ad esempio le condizioni di Anoressia nervosa, tradizionalmente a rischio di squilibri metabolici ed elettrolitici, possono incorrere con più facilità nell’insufficienza respiratoria;
3. Nuovi casi di disturbi alimentari possono essere favoriti dal COVID-19: In alcuni casi si è assistito alla comparsa di un disturbo dell’alimentazione che prima del lockdown non c’era, oppure a singoli comportamenti disfunzionali, come una maggiore dipendenza da alcuni cibi, soprattutto quelli più palatabili o di conforto. Per alcune persone infatti la ricerca di un appagamento per compensare lo stress da isolamento prolungato è passata dal cibo, risorsa sempre disponibile, economica e socialmente accettata. Da anni la SIS-DCA, la Società Italiana Scientifica per lo Studio dei Dca e dell’obesità (società fra le più antiche al mondo) studia proprio la food addiction o dipendenza da cibo, notando che vi sono meccanismi neurobiologici e psicologici in parte sovrapponibili fra dipendenza da sostanze e piacere per il cibo;
4. Durante questa emergenza COVID-19 la cura dei Dca è stata ridotta o ridimensionata: Durante la fase più critica della pandemia, ma anche in questi giorni causa non ripristino ancora totale delle attività ordinarie nei centri clinici, alcuni trattamenti per i Dca sono stati interrotti, ridotti al minimo o erogati nella forma on-line che, pur assicurando una certa continuità terapeutica, non ha comunque lo stesso impatto del trattamento in presenza, anche per la mancanza di un’adeguata formazione degli operatori per i trattamenti a distanza. Inoltre – conclude il dott. Castelnuovo – i trattamenti residenziali sono stati sospesi o rinviati, perdendo occasioni terapeutiche a volte irripetibili per alcuni pazienti.
(Tratto dalle linee guida del progetto MA.NU.AL “la MAppatura territoriale dei centri dedicati alla cura dei Disturbi della NUtrizione e dell’ALimentazione in supporto alle Azioni Centrali del Ministero della Salute”.)

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), distingue tra i DCA più frequenti l’Anoressia Nervosa(AN), la Bulimia Nervosa (BN) e il Disturbo da Alimentazione Incontrollata (BED).

E’ ormai risaputo che l’adolescenza è una fase della vita molto colpita da questo disturbo, una caratteristica allarmante del fenomeno attuale si riferisce però al fatto che molti casi coinvolgono persone adulte, over 35-40 anni.
In molti casi si tratta di persone, per lo più donne, che hanno avuto già in passato problemi con l’alimentazione; in questi casi la quarantena e l’isolamento sociale imposti dalla pandemia di Coronavirus sono stati deleteri. Le mura domestiche sono state vissute come una “prigione” e la paura di contagiarsi con il Covid-19 si è aggiunta alle fatiche oggettive di dover rimanere 24 ore su 24 insieme al proprio peggior nemico: il cibo.
In molti altri casi però la pandemia ha dato voce ad alcune difficoltà che le persone hanno sempre cercato di tenere sottocontrollo, compensandole con la vita quotidiana: nel momento in cui la vita è stata sconvolta tali difficoltà hanno preso il sopravvento. In queste situazioni la comparsa di sintomi legati ad un disturbo del comportamento alimentare può essere il ritorno di sintomi noti, ma anche la definizione di un disturbo che il paziente viveva già da molti anni, ma non ha mai trattato prima come disturbo alimentare.
Si identificano come sintomi associati ad un DCA mascherato negli anni fattori quali un’attività atletica intensa e compulsiva, un’insoddisfazione costante del proprio aspetto fisico, il ricorso alla chirurgia plastica, un’attenzione marcata alla dieta da seguire, l’uso di lassativi, fluttuazioni continue di peso.
Gli adulti usano il cibo come ricompensa o come compensazione di controllo, monitorando in modo ossessivo l’assunzione di cibo in base alle calorie, per esorcizzare le ansie quotidiane su cui sentono di non avere potere. Entrambe queste difese vengono adottate per affrontare momenti particolarmente difficili nell’illusoria convinzione che una dura disciplina applicata al corpo possa risolvere problemi affettivi, lavorativi, sociali e controllare qualcosa che non può essere controllato.
Un tranello insidioso risiede nel fatto che, mentre negli adolescenti queste difese possono risaltare agli occhi dei genitori, permettendo di intervenire a livello medico e psicologico, gli adulti non hanno figure che possano “monitorare” il loro rapporto con il cibo. Questo permette loro di continuare per anni ad attuare comportamenti compensatori molto pericolosi sia a livello psicologico che fisico.
Dunque non è raro che i pazienti mi riferiscano di saltare la cena perchè troppo stanchi dal lavoro per cucinare ma poi si “abbuffano” di cibi spazzatura fino a sentirsi male; è altresì frequente che le madri mi raccontino di non mangiare quasi nulla poiché non hanno tempo di sedersi a tavola mentre preparano cene nutrienti e sane per i propri figli. O ancora c’è chi non cucina mai per sé perchè da quando è single “preferisce” un gelato davanti la tv che ritrovarsi sola a tavola.

E’ importante sottolineare che in età adulta non sono solo gli eventi dolorosi a causare difficoltà psicologiche nel rapporto col cibo, bensì tali difficoltà si accentuano spesso di fronte a qualsiasi evento che sancisce simbolicamente l’entrata nell’età adulta, quale un matrimonio o una gravidanza, o che richiede un cambiamento, come l’adolescenza dei figli, il primo approccio con l’idea di invecchiare, la menopausa, la malattia di un genitore.
Di fronte a tutte queste fasi di vita inevitabili si rischia che antiche modalità difensive riemergano quando gli eventi della vita superano la propria capacità di tollerarli.

In particolare di fronte ad una gravidanza i sintomi dei DCA assumono una connotazione ancor più pericolosa perchè hanno ripercussioni irreversibili sullo sviluppo del feto. Nonostante spesso questa sia una consapevolezza per la donna, ella può non riuscire comunque a modificare da sola le proprie abitudini disfunzionali alimentari, dunque si aggravano le difficoltà psicologiche legate al senso di colpa verso il figlio che sta mettendo in pericolo.
I sintomi, dapprima lievi, possono poi divenire sempre più gravi in una progressione da cui diviene sempre più difficile uscire: dal rifiuto di un particolare alimento, al rifiuto del cibo in generale, al rifiuto del proprio aspetto fisico, ad una sempre maggiore difficoltà a mantenere una visione realistica ed equilibrata del proprio aspetto corporeo e di quello che si sta vivendo.
E’ necessario menzionare anche che alcuni comportamenti sono peraltro sostenuti da una cultura che sembra approvare un’attenzione alla linea o alla dieta e che sembra sostenere l’autostima di chi persegue obiettivi di controllo del peso.

Un’altra considerazione importante riscontrata come psicoterapeuta, è che per persone che in giovane età hanno lottato con sintomi gravi legati ai disturbi alimentari, può essere estremamente doloroso rendersi conto, in età adulta, quanto quegli antichi disturbi possono aver condizionato la loro vita. Tale consapevolezza, a volte rende la persona desiderosa di tornare a lavorare sulle proprie difficoltà; altre volte si assiste invece all’accompagnarsi di un vissuto depressivo quasi di ineluttabilità.

Altro momento estremamente pericoloso per la donna è l’avvento della menopausa, in cui si riscontra un aumento dei casi di anoressia nervosa rispetto alla bulimia: spesso la donna in questo periodo comincia a mangiare sempre di meno e a contare le calorie, nascondendosi dietro la motivazione di contrastare la tendenza all’ingrasso da carenza di estrogeni post-menopausa. A volte si tratta di un’anoressica ‘di ritorno’ che anche dopo essere uscita dal tunnel della magrezza eccessiva ha mantenuto qualche difficoltà nel rapporto con il cibo, per esempio è rimasta un po’ fissata con la dieta, è un’iper-salutista o una super-sportiva.

Purtroppo l’insorgenza o il ritorno di sintomi del disturbo alimentare in età adulta sono più difficili da affrontare da soli: da un lato c’è la possibilità di ancorarsi a risorse interne più mature, ma spesso l’imbarazzo di dover affrontare tale problema in famiglia porta la persona a negare a lungo anche a se stessi. Il proprio ruolo in famiglia, gli impegni quotidiani, tante cose permettono al paziente di banalizzare alcuni sintomi, mimetizzandoli con lo stress del momento storico e sociale che tutti stiamo vivendo.

Chiedere aiuto risulta dunque difficile ma possibile: molte pazienti in questi mesi hanno riconosciuto come il Covid e tutte le ripercussioni ad esso associate, abbiano permesso loro di sentirsi legittimate a fermarsi, avere paura, riconoscere dunque le proprie fragilità. Non è raro dunque che un paziente che si rivolge a studio per affrontare un’insolita ansia insorta in questi mesi di pandemia, arrivi col tempo a riconoscere che sotto la nebbia dell’ansia risiede qualcosa di più antico e profondo, legato al cibo, alle proprie insicurezze, alle proprie emozioni a lungo inascoltate o messe a tacere fin quando è stato possibile.
Le richieste di aiuto di questi ultimi mesi mi hanno portato a lavorare spesso su due livelli intrapsichici paralleli in psicoterapia: da un lato la ri-narrazione della storia del paziente, con attenzione alla sofferenza provata nell’arco della propria vita, dando spazio a tutte quelle emozioni che spesso sono state negate; al contempo il lavoro si incentra molto sulla valorizzazione delle risorse attuali della persona, non come compensazione per negare le proprie difficoltà ma con l’obiettivo di integrarle in un unico Sé, adulto, responsabile ma umano e sensibile, in grado ciò di condurre avanti la propria vita, recuperando e rivalorizzando ciò che è accaduto in precedenza e l’ha condotto fin là.

Disturbi del comportamento alimentare negli adulti
Disturbi del comportamento alimentare negli adulti

AI TEMPI DEL CORONAVIRUS…LA DIFFERENZA TRA ANSIA E PREOCCUPAZIONE

Da qualche mese, a causa del difficile periodo che stiamo vivendo, arrivano a studio persone che chiedono aiuto circa l’ansia provata per il Covid-19.
Spesso mi raccontano che non riescono più a dormire, che non vogliono uscire di casa, che anche al sicuro nelle loro mura domestiche vivono perennemente una sensazione di pericolo. Al contempo alcune persone hanno paura per i propri cari, quali ad esempio i figli che devono comunque andare a scuola o il proprio partner che continua a lavorare in presenza.

Mi sono ritrovata dunque a riflettere ed a far riflettere i pazienti sulla differenza fondamentale che intercorre tra la preoccupazione, contestuale in alcune situazioni, e l’ansia, disturbo che può arrivare ad essere invalidante ma che spesso ci racconta tanto altro rispetto alla sua causa più evidente della pandemia.

Comunemente le persone tendono ad usare i termini preoccupazione ed ansia come fossero sinonimi e corrispondessero agli stessi vissuti emotivi. In realtà si tratta di due esperienze interiori che differiscono sia per caratteristiche che per intensità.

Sottolineo sempre ai pazienti che la preoccupazione è diretta verso qualcosa di specifico ed identificabile. Dunque quando viviamo un sentimento di preoccupazione sappiamo con chiarezza cosa lo sta provocando. Possiamo quindi affermare che la preoccupazione ha a che fare con problematiche oggettive, reali.
Questa identificazione non è possibile con l’ansia: quest’ultima è spesso legata a situazioni più generali, vaghe ed indefinite. Molto spesso i pazienti riferiscono di sentirsi ansiosi senza nemmeno sapere il motivo per cui si sentono così a disagio. La frase che maggiormente sento riferire è “Mi sento in questo modo ma non saprei perchè visto che va tutto bene!”.
Si innesca dunque un pensiero irrazionale, la proiezione futura di qualcosa di negativo che potrebbe accadere ma ancora non è accaduto e lascia la persona in uno stato di perenna “attesa della catastrofe”.
Così delineato si evince dunque che la preoccupazione è congrua in quanto correlata ad un reale problema da risolvere, il quale richiede energia mentale e fisica per reagire. L’ansia porta ad uno stato di allerta e malessere incongrui poiché il problema non esiste se non nella fantasia della persona, e, cosa ancor più dolorosa, non si può risolvere con alcuna azione concreta.

Un’ulteriore distinzione risiede nel fatto che la preoccupazione è limitata nel tempo e circoscritta ad un evento o situazione ben precisa mentre l’ansia, oltre ad essere aspecifica, è ricorrente e pervasiva ed investe molti aspetti della vita di chi ne soffre.
La preoccupazione, avendo a che fare con una specifica area della vita in un dato momento può trovare sollievo in altre aree relazionali: se una persona è preoccupata per una performance lavorativa probabilmente gioverà nell’uscire con gli amici poiché si alleggerirà per qualche ora.
L’ansia invece invade tutte le aree della vita della persona, facendogli esperire negatività, malessere e incertezza in ogni cosa. Invalida il lavoro, gli affetti ed anche le relazioni; alla persona è impossibile trovare pace e tregua anche nelle cose che di solito ama fare.

Differenze tra ansia e preoccupazione si riscontrano anche rispetto alle manifestazioni.
La preoccupazione è basata sul pensiero e si manifesta attraverso il dialogo interno: può causare insonnia ma raramente si esplica anche fisicamente.
L’ansia invece si manifesta con un corollario complesso di sintomi fisici quali battito cardiaco, sudorazione, secchezza delle fauci, digrignamento dei denti o serraggio della mascella (bruxismo), contrazione muscolare quali cervicali e cefalea, mal di stomaco, vertigini.
Molte persone scoprono di soffrire d’ansia dopo che si sono recate presso un medico o in ospedale perchè avvertono problemi cardiaci.

Anche gli effetti a lungo termine di preoccupazione e ansia sono diversi: la preoccupazione lascia dietro di sé nervosismo e stress, l’ansia ci rende insicuri e spaventati quasi dalla vita stessa, nel corso del tempo può trasformarsi in attacchi di panico, disturbi d’ansia più complessi e depressione grave influenzando notevolmente la capacità di funzionare delle persone e la loro qualità di vita.

L’esperienza mi ha insegnato che le persone accettano maggiormente di parlare delle proprie preoccupazioni ma sono più restie nel rivelare di soffrire di ansia. Mentre la preoccupazione sembra socialmente accettabile, l’ansia sembra ancora qualcosa di cui ci si debba vergognare e quindi lo si debba nascondere. Questo si verifica perché la società non cui viviamo non sembra poter tollerare di vederci impauriti e incerti: il modello a cui tendere è quello della persona sicura, determinata e di successo.

La pandemia che stiamo affrontando si presta come terreno fertile per fare esperire alle persone emozioni intense negative spesso legate a vissuti più viscerali e antichi.  Dunque il Covid-19 sembra attivare delle ansie e delle difficoltà che sono sempre state dentro la persona ma non hanno mai trovato una possibilità di manifestarsi. La paura collettiva attuale offre il giusto presupposto per “ammettere di stare male” e fornisce ad alcune persone la possibilità di sentirsi legittimati ad affrontare alcuni nuclei più profondi che difficilmente, in altri momenti, avrebbero trovato spazio per essere fronteggiati.


Ai tempi del Coronavirus… la differenza tra ansia e preoccupazione

ADOLESCENTI E CORONAVIRUS: UNA FASE DI VITA DELICATA VISSUTA IN UN MOMENTO SOCIALE DELICATO

Siamo oramai tutti a conoscenza di quanto sia delicata l’adolescenza e dei tanti compiti evolutivi caratteristici di questa fase1:

Processo di separazione-individuazione dalla famiglia d’origine: il termine separazione rischia di far immaginare qualcosa di drastico e negativo sia per i figli che per i genitori, in realtà si tratta di un progressivo ed evolutivo allontanamento, sia dal punto di vista fisico che affettivo, dalle figure genitoriali. Tale processo psicologico e sociale è spesso vissuto in modo conflittuale e ambivalente da tutta la famiglia perchè da un lato, l’adolescente, alla ricerca di sé e della propria autonomia, respinge i genitori e ciò che questi rappresentano (insieme a molti altri adulti e alle istituzioni) per prendere le distanze dai modelli, dai valori e dalle tradizioni che questi propongono, dalla propria dipendenza e da un precedente modo di stare in relazione; dall’altro, è rassicurante per il ragazzo poter contare su punti di riferimento solidi, se pur sempre meno idealizzati e sempre più reali, da cui poter trarre sostegno, valorizzazione e riconoscimento rispetto a ciò che è e alle proprie potenzialità e possibilità future;

Mentalizzazione del corpo sessuato: in questa fase si vivono trasformazioni corporee che si susseguono, in modo incontrollato e spesso poco armonico. Queste trasformazioni costringono già il preadolescente ad un lavoro di riconsiderazione, di rinnovamento dell’idea di sé. Il corpo che si trasforma in modo spesso non voluto spinge alcuni adolescenti a pratiche di recupero del controllo (attacchi alla corporeità attraverso l’alimentazione, pratiche dolorose, piercing, ecc);

La formazione dei propri ideali: si manifestano delle trasformazioni anche sul piano intellettuale, infatti, diviene progressivamente capace di usare il pensiero astratto e di rappresentarsi perciò non soltanto il mondo familiare, sociale e politico così com’è, ma come potrebbe essere se certi elementi e certe condizioni fossero diverse. Come conseguenza, l’adolescente smette di pensare alla realtà che vede e sperimenta come l’unica possibile ed emerge un atteggiamento spesso critico anche rispetto a giustificazioni fino a quel momento considerate valide. Da qui il bisogno di capire e spesso il desiderio di sperimentare in modo diretto e autonomo: nascono gli idoli, i miti, che sono proiezioni dell’Ideale dell’Io sui miti e le icone del mondo adolescenziale, assai variabili per sesso e gruppi di appartenenza;

La nascita sociale che rappresenta il percorso verso un ruolo socialmente riconosciuto. L’esperto psichiatra Charmet2 chiama questa fase “seconda nascita” che, dopo quella fisiologica, segna l’ingresso nel mondo adulto. Il punto di arrivo di questo percorso è nell’età adulta, ma durante tutta l’adolescenza si susseguono momenti e debutti provvisori, in situazioni e gerarchie gruppali diverse dalla famiglia L’incremento del desiderio di socializzazione si lega ai bisogni di appartenere e sentirsi rispecchiato dal gruppo dei pari e conducono l’adolescente a costruire nuove relazioni attraverso le quali sperimenta e pone le basi per la vita relazionale ed effettiva dell’età adulta.

L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo sembra da un lato aver sospeso la vita a cui tutti siamo sempre stati abituati: adulti a casa, senza lavorare o lavorando al PC. Ai tempi del Covid19 viviamo una casa che sembra sempre più piccola, senza uno spazio né un tempo per se stessi. L’ansia per la propria sicurezza fisica, le precauzioni, le limitazioni, le preoccupazioni economiche, le notizie contraddittorie dalla TV, le incertezze rispetto al futuro.

In mezzo a tutto questo ci sono loro, i ragazzi, ai quali questo tempo sta chiedendo molto: figure a volte aleatorie, a volte arrabbiate, girano per casa captando tutte le angosce della famiglia e contattando le proprie. Gli adolescenti, sul trampolino di lancio della propria vita, si sono visti frenati all’improvviso.

Eppure nonostante questa frenata causata dal Covid19 la vita chiede loro di andare avanti: mantenere una vita sociale, sfogarsi con gli amici ma senza parlare ad alta voce per paura che i genitori sentano; vivere la propria storia d’amore senza potersi vedere e senza avere le certezze di un adulto; continuare a studiare con compiti ed interrogazioni senza lo scambio consueto con i propri pari, utilizzando proprio quella tecnologia per la quale fino a pochi mesi fa litigavano con i genitori per il troppo utilizzo.

Nel mio lavoro di psicoterapeuta in questo periodo sento spesso genitori preoccupati o arrabbiati rispetto al comportamento dei loro figli e vorrei cercare di dissipare un po’ di confusione.

I ragazzi vivono una realtà scissa: in questo periodo “straordinario” chiediamo loro di fare “gli straordinari” non uscendo da casa, non vedendo gli amici ma con la pretesa che si impegnino “ordinariamente” nella scuola nonostante la confusione di notizie e di organizzazione.

La TV ci consiglia vivamente di strutturare le nostre giornate tra impegni, attività fisica, lavoro e alimentazione sana e sicuramente è un bene che i ragazzi mantengano alcune costanze nella loro vita.

Nonostante queste indicazioni però spesso vediamo ragazzi fare le ore piccole al telefono o al PC con gli amici o guardando serie tv. Da un lato ciò rappresenta un’alterazione del ciclo vitale ma vorrei sottolineare quanto il tempo notturno sia spesso l’unico in cui gli adolescenti sentono di vivere la propria privacy: genitori a letto significa esperire davvero la sensazione di avere la casa solo per sé. Inoltre vorrei sottolineare che vivere di notte rappresenta una trasgressione dai modelli familiari che come abbiamo visto è necessaria per portare avanti il processo di separazione-individuazione dell’adolescente dalla famiglia.

Al contempo ciò rappresenta un nodo cruciale quando tale abitudine influenza in maniera determinante l’andamento della giornata: umore irascibile, negligenza nei propri compiti domestici, apatia, trascuratezza nello studio o isolamento dalla vita familiare possono essere indicatori da non sottovalutare.

Anche la tecnologia rappresenta un punto ambivalente: con il dilagarsi della dipendenza da Internet l’attenzione verso i dispositivi elettronici è cresciuta notevolmente negli ultimi anni. Eppure oggi è proprio grazie a questi dispositivi che i ragazzi continuano la loro formazione, dunque passano su internet molto tempo. Ma è poi giusto togliere loro il telefono perchè l’hanno usato già molto tempo quando esso rappresenta l’unico canale di socializzazione possibile?

Credo vivamente che in questa fase di emergenza sociale sia bene dare valore ed attenzione ad altri indicatori di benessere o malessere psicologio: piuttosto che privarli del telefono sarebbe bene far in modo che i ragazzi non lo usino durante i pasti consumati in famiglia o durante il tempo trascorso insieme magari vedendo un film o facendo un gioco. Piuttosto che demonizzare in toto il telefono sarebbe bene limitare il tempo trascorso con i videogiochi (anche alla playstation).

Buoni segnali di serenità nei ragazzi possiamo rintracciarli oggi anche nelle risorse che essi investono nel mantenere l’impegno della scuola: la partecipazione alle videolezioni, il rispetto degli appuntamenti, lo svolgimento dei compiti tra la mattina ed il pomeriggio, sono buoni indicatori.

Mantenere questa routine scolastica, senza il beneficio del contatto amicale, richiede loro molta autodisciplina ed attenzione, al punto a volte, di lasciar loro pochissime altre energie per autoregolarsi.

Questa fase di vita richiede dunque ai genitori di essere ancora più aperti e flessibili, non tanto per “giustificare” i comportamenti dei loro figli ma per “spiegarseli”, magari condividendo le preoccupazioni insieme.

1 http://www.goccedipsicologia.it/mio-figlio-adolescente-quello-sconosciuto/ di M. Paccamiccio

2 Guastavo Pietropolli Charmet è uno dei più importanti psichiatri e psicoterapeuti italiani. Si è laureato in medicina all’Università di Padova, specializzandosi in psichiatria presso la Clinica Universitaria di Milano. È stato primario in diversi ospedali psichiatrici e docente di Psicologia dinamica all’Università Statale di Milano e all’Università di Milano Bicocca. Nel 1985, con l’appoggio di Franco Fornari e con altri soci, ha fondato l’Istituto Minotauro di cui è stato presidente fino al 2011. È autore di numerosi saggi sull’adolescenza.

ADOLESCENTI E CORONAVIRUS: UNA FASE DI VITA DELICATA VISSUTA IN UN MOMENTO SOCIALE DELICATO

ADOLESCENTI E CORONAVIRUS: UNA FASE DI VITA DELICATA VISSUTA IN UN MOMENTO SOCIALE DELICATO

ATTACCHI DI PANICO E PSICOTERAPIA

Gli attacchi di panico sono episodi di intensa paura o di una rapida escalation dell’ansia normalmente presente. Insorge un’angoscia intensa senza alcuna prevedibilità e senza possibilità di interromperla. A ciò si associano manifestazioni fisiche quali palpitazioni, tachicardia, vertigine, tremori corporei, diarrea o sudorazione eccessiva e soprattutto sensazione di soffocamento…..nell’attacco di panico è il corpo a parlare della propria morte o, meglio, della propria agonia.
Chi ha provato gli attacchi di panico li descrive come un’esperienza terribile, spesso improvvisa ed inaspettata, almeno la prima volta,in seguito la paura di un nuovo attacco diventa immediatamente forte e dominante. Spesso per la persone diventa difficile svolgere azioni quotidiane come guidare o uscire da sola di casa. L’evitamento di tutte le situazioni potenzialmente ansiogene diviene la modalità prevalente ma l’individuo diviene così schiavo del panico. Questo costringe spesso tutti i familiari ad adattarsi di conseguenza, a non lasciarlo mai solo e ad accompagnarlo ovunque. Ne consegue un senso di frustrazione che deriva dal fatto di essere “grande e grosso” ma dipendente dagli altri, che può condurre ad una depressione secondaria.
Alcuni eventi di vita possono fungere da fattori precipitanti, anche se non indicono necessariamente un attacco di panico.
A volte le persone temono che i sintomi dell’attacco di panico indichino che stanno “impazzendo” o perdendo il controllo, o che sono emotivamente deboli e instabili.
Una volta comparso, l’attacco di panico tende inesorabilmente a ripetersi.
Chi lo ha subito, lungi dall’essere rassicurato dal fatto di essere sopravvissuto o dal convincersi dall’inconsistenza dei suoi terrori, sembra sempre più incline a farsene catturare. Un elemento molto importante nella preparazione e nello scatenamento dell’attacco è il ruolo giocato dall’immaginazione.

L’attacco di panico in psicoterapia viene considerato un sintomo di una complessa ma aspecifica sofferenza del Sé, espressione del venir meno di alcuni parametri necessari al suo funzionamento.
L’angosciosa sensazione di non comprendersi porta all’accumulo dell’ansia che, nel corso della crisi, si travasa nel corpo e si esprime in un linguaggio viscerale, sottraendosi sempre di più alla possibilità di essere raffigurata psichicamente.
I terapeuti sanno tuttavia che le fobie e gli attacchi di panico sono solo un sintomo di una situazione molto più complessa: sono l’espressione di un difetto di costituzione della personalità.
Alcune volte gli attacchi di panico compaiono nel corso di crisi di identità, nei momenti di trasformazione (entrata nell’età adulta, crisi della mezza età) o come reazioni psicosomatiche alla separazione, ma indicano una mancata strutturazione del sé. È il fallimento di quelle funzioni inconsce che modulano e monitorizzano lo stato emotivo. Nelle condizioni di stress non è possibile utilizzare quell’insieme di operazioni inconsapevoli necessarie a trasformare i contenuti emotivi per renderli idonei al funzionamento della vita psichica.
In altre parole si viene a configurare una rottura simile a quella del disturbo post-traumatico da stress in cui la persona, in uno stato di ipervigilanza, cade improvvisamente preda di attacchi di terrore legati associativamente all’episodio traumatico.

La psicoterapia affronta gli attacchi d panico in vari modi in base all’approccio di riferimento.

Da un punto di vista psicodinamico i sintomi nascono da conflitti e fantasie inconsci. Ad esempio pazienti con disturbi di panico spesso lottano con sentimenti e fantasie di rabbia e aggressività che sperimentano come attacchi e minacce alle figure di attaccamento. Queste fantasia e sentimenti vengono vissuti come minacce perciò vengono spesso evitati grazie a dei processi psichici chiamati meccanismi di difesa che possono essere osservati ed analizzati nel corso di un adeguato trattamento psicoterapeutico.
Buona parte del lavoro della psicoterapia psicodinamica nel trattamento degli attacchi di panico mira al riconoscimento di sentimenti di rabbia (e dei meccanismi di difesa che hanno la funzione di evitare tale riconoscimento), alla gestione dell’ambivalenza circa i desideri di autonomia e dipendenza e le connesse paure di smarrimento o di abbandono.
Il lavoro terapeutico si incentra sull’identificare il significato e il contenuto dei sintomi, esplorando le circostanze in cui si sviluppano gli episodi di panico. Il chiarimento di una storia evolutiva, compresi i precedenti episodi di panico, aiuta a determinare in che modo le prime esperienze di vita e le rappresentazioni di sé e degli oggetti possano svolgere un ruolo attivo nel disturbo.
Successivamente si cercano di identificare i conflitti fondamentali sottostanti il disturbo di panico. Conflitti quali la rabbia e l’autonomia, nonché altre dinamiche e i relativi meccanismi di difesa vengono portati all’attenzione del paziente man mano che questi si rendono visibili all’interno del trattamento. I meccanismi di difesa sono gradualmente mostrati come tentativi spesso inconsci per evitare di affrontare i contenuti potenzialmente responsabili degli attacchi di panico. L’emergere di queste meccanismi all’interno della relazione terapeutica permette al paziente di prenderne consapevolezza e di affrontarli.

Attacchi di panico e psicoterapia
Attacchi di panico e psicoterapia

FARMACI O PSICOTERAPIA?

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https://thevision.com/scienza/italiani-ansiolitici-psicologo/?fbclid=IwAR2J-6Yq4PncSMdB9LqQ3i3mZ-ehTiM74sJVf

 

Vari studi evidenziano come molti italiani preferiscano ricorrere direttamente ad uno psicofarmaco piuttosto che avvalersi dell’aiuto un terapeuta.

Il farmaco riduce i sintomi dando spesso la sensazione di una risoluzione del problema ma è necessario sottolineare che non incide affatto sulla causa del disagio!

L’utilizzo dei farmaci è molto utile nei casi in cui, riducendo i sintomi, permette alla persona di concentrarsi su un lavoro più introspettivo, che gli permetta di capire da dove nascano le sue difficoltà.
A tal proposito vorrei proporre questo interessante articolo di Mattia Madonia.

 

FARMACI O PSICOTERAPIA?
FARMACI O PSICOTERAPIA?

Un viaggio dentro l’ansia

https://posts.gle/LtYvx

https://www.linkedin.com/posts/dott-ssa-michela-paccamiccio-313a9b87_i-molti-studi-sui-disturbi-di-ansia-confermano-activity-6614619591106678784-iUCN/

 

Alcuni studi dimostrano che il 25% delle persone ha avuto nel corso della sua vita disturbi di ansia. Senza però dover arrivare fino ad un concetto di diagnosi, è possibile affermare che moltissime persone quotidianamente vivono forti sensazioni di ansia.

Si tratta di una sensazione di disagio intenso, dalla quale spesso la persona non sa come liberarsi, pur essendo consapevole a livello razionale che molte delle preoccupazioni che la affliggono non sono realmente dei problemi insormontabili.
La persona ansiosa vive in uno stato di eccitazione costante, continuamente in attesa che accada qualcosa di terribile; tale livello di tensione, soprattutto se protratto a lungo, è estenuante e ha delle ripercussioni sia emotive che fisiche. Lo stato ansioso può sfociare in attacchi di panico, ma anche quando non ci sono episodi conclamati la condizione di stress è elevatissima.

Molte cose si sono dette sull’ansia: i possibili rimedi, le possibili cause.
Quest’articolo non vuol essere l’ennesimo manuale di istruzioni per chi soffre di ansia né esplicitare le innumerevoli teorie al riguardo; oggi voglio fornire uno sguardo dall’interno e fare un viaggio dentro le persone che avvertono questo disagio, per provare a vivere ciò che provano.

Di seguito vengono riportare le esperienze di alcune persone che soffrono di attacchi di ansia, raccolte da Melissa McGlensey, direttrice della rivista online The Mighty, che si occupa di salute.
McGlensey ha intervistato delle persone che convivono con l’ansia, chiedendo loro di provare a riassumere la loro condizione nel tentativo di permettere agli altri di empatizzare con il loro disagio.

1. “A volte, anche il compito più semplice mi sfinisce” – Rhonda Bodfield
L’ansia può assorbire moltissime energie di un individuo: spesso la persona ansiosa è sopraffatta da compiti che in altra condizione possono apparire come semplici. Molte volte si sente dire che “L’ansia paralizza” poiché rende difficile iniziare un compito e comporta un’enorme paura di fallire.
Il supporto maggiore che si possa dare alla persona ansiosa in questo caso, è non criticare nè minimizzare il problema, ma solo accompagnarlo durante la risoluzione di quest’ultimo;

2. “Non abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi come se fossimo matti. Abbiamo bisogno di qualcuno che sia compassionevole”- Kristen Cunningham
K.C. sottolinea come le persone affette da sintomi ansiosi non vogliono che gli altri risolvano le cose al loro posto, piuttosto è importante la comprensione. Molte volte non serve altro che essere presenti e trasmettere alla persona che sta soffrendo che, qualora ne avvertisse il bisogno, può contare sull’aiuto dell’Altro, senza critiche, senza rimproveri, senza lamentele.

3. “Il fatto che non possa spiegare i sentimenti che mi provocano ansia, non la rende meno grave” – Lauren Elizabeth
E’ veramente difficile per chi convive con l’ansia descrivere a parole ciò che prova; ciò non significa affatto che il suo sentire non sia reale.
E’ dimostrato che minimizzare questo stato peggiora notevolemente il vissuto della persona ansiosa, poiché lo fa sentire incompreso ma soprattutto inadeguato al contesto.

4. “So che mi preoccupo di cose ridicole, ma non posso farne a meno” – Erika Myers Strojny
Le persone ansiose sembrano preoccuparsi per dettagli che risultano irrilevanti per la maggior parte degli altri. Ciò può accadere perché anticipano gli eventi, prefigurandosi sempre lo scenario peggiore.
Essere pienamente consapevoli a livello razionale di questo, non permette comunque loro di evitare tali vissuti, che spesso sembrano acquisire una vita propria.

5. “Sono aggredita da qualcosa alla quale non posso sfuggire” – Sherri Paricio Bornhöft
Di fronte ai tentativi di incoraggiamento o di incitamento alla persona ansiosa sentiamo rispondere “Non ho scelto io di essere ansiosa”.
Mai frase fu più emotivamente significativa: la persona ansiosa vorrebbe liberarsi di tale disagio ma non sa come fare, il chè genera spesso ulteriore ansia. La sensazione rimanda all’essere intrappolati dentro un labirinto senza via d’uscita.

6. “Solo perché non capite cosa significano le mie paure, non vuol dire che non siano reali” – Vicki Happ
Spesso le persone accanto a colui che soffre di ansia tendono a mostrargli quanto tutte le sue paure siano infondate e immotivate, ma il fatto che tali sentimenti e preoccupazioni non siano condivisi da chi gli sta vicino non li rende meno reali per la persona ansiosa.
Quando qualcosa è reale nella sua mente, diventa reale anche nella sua vita quotidiana. Pensare che non è possibile controllare una situazione né superarla, si trasforma spesso in una profezia che si autoavvera per la persona ansiosa.

7. “Tutta la logica del mondo non fermerà il cuore che batte nel mio petto” – Rebecca V. Cowcill
Le persone che soffrono d’ansia spesso hanno attacchi di panico.
I sintomi più frequenti sono battito accelerato del cuore, fatica a respirare che comporta iperventilazione e terrore di morire.
Questi sintomi così intensi, provocano un vero e proprio sequestro emotivo. Il cervello emotivo prende il sopravvento e scollega la parte razionale. Dunque anche se la persona è razionalmente consapevole che non sta rischiando realmente la vita, ciò non è sufficiente a contenere i sintomi.

Infine, una persona riassume perfettamente ciò di cui ha bisogno dagli altri: “La mia mente è il mio nemico, quindi ho bisogno di averti al mio fianco. A volte ho solo bisogno che tu combatta insieme a me”.

Ansia
Ansia

La tristezza del Natale

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Natale è la festa della famiglia, in cui si celebrano gli affetti, l’amore, si condividono gioie e speranze per il futuro.

Non sempre però le nostre famiglie e i nostri affetti ci sono vicini, altre volte siamo in disaccordo con loro, oppure sentiamo di non avere nessuno con cui condividere questi momenti festosi.

La fine dell’anno è un momento di valutazione, in cui tiriamo le somme di ciò che è stato l’anno appena trascorso.

Quali sogni o obiettivi abbiamo realizzato…con chi li abbiamo condivisi…cosa non abbiamo concretizzato…quali sono state le occasioni perdute…cosa avremmo potuto fare in più ma non ce l’abbiamo fatta…

Tante emozioni si susseguono, delusione e tristezza si alternano, a volte a prevalere su tutte le altre è proprio la tristezza fino a diventare vera e propria depressione nei casi più estremi.

Le festività si caratterizzano inoltre come un momento di pausa dalla normale quotidianità. Problemi e difficoltà fino a quel momento apparentemente gestiti o ignorati vengo improvvisamente imposti alla nostra attenzione. Il momento che dovrebbe essere dedicato al riposo e alle attività piacevoli diventa anche un momento di riflessione e per sentire realmente le emozioni spesso messe da parte per via della frenesia della vita.

 

Ogni fine però, POTREBBE essere un nuovo inizio….

 

 

 

1 DICEMBRE GIORNATA MONDIALE CONTRO L’AIDS

1 DICEMBRE GIORNATA MONDIALE CONTRO L’AIDS

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Nonostante tutte le campagne di prevenzione e le nuove cure, viene data ancora poca attenzione al benessere psicologico del paziente con HIV.

Eppure l’HIV ha un’impatto psicologico molto forte sulla persona, con ripercussioni sulla vita relazionale, sociale ed affettiva del paziente che deve fronteggiare la sfida di un nuovo adattamento alla situazione.

Gli obiettivi di un INTERVENTO PSICOTERAPEUTICO comprendono:
– una piena consapevolezza della presenza della malattia e la comprensione della stessa;
– la gestione delle emozioni e dello stress causato dalla notizia;
– il ripristino dell’autostima.

Il TERAPEUTA ha il compito di definire un percorso specializzato e individuale  che consideri la situazione affettiva e clinica e le caratteristiche psicologiche del paziente per comprendere come ricostruire una nuova visione di sé che sia funzionale al raggiungimento di un livello soddisfacente di qualità della vita.

Il SOSTEGNO PSICOLOGICO si prefigura quindi come un intervento multidimensionale:
– supporto alle famiglie dalla comunicazione della diagnosi alla gestione della quotidianità,
– presa in carico in terapie di individui sieropositivi che associano alla malattia altre problematiche di tipo relazionali,
– interventi di comunicazione intenti alla prevenzione del contagio soprattutto nelle fasce giovanili,
– interventi per il supporto all’integrazione tra sieropositivi e non contrastando le false notizie.

#WorldAIDSDay

 

1 DICEMBRE GIORNATA MONDIALE CONTRO L'AIDS
1 DICEMBRE GIORNATA MONDIALE CONTRO L’AIDS